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Troppi diritti, nessun diritto (e soprattutto nessuna responsabilità)

di Antonio Salvati

In una società e in un tempo sempre più liquidi e magmatici, così lucidamente descritti da Zygmunt Bauman, dovendo provare a individuare un possibile minimo comune denominatore di tutte le manifestazioni che li connotano penserei sicuramente all’individualismo. Non parlo ovviamente dell’egoismo filosofico di Max Stirner, né tanto meno di sue pallide imitazioni – in pratica, delle brutte copie – come il pensiero neoliberista o ancora la corrente anarco-capitalista alla maniera del neopresidente argentino Milei[1], ma più banalmente della tendenza di considerare noi stessi, i nostri bisogni e i nostri desideri come unica e possibile misura di tutte le cose.

Questo crescente – e, a questo punto, forse incolmabile – distacco che si è formato tra l’individuo e la comunità di appartenenza, frutto della crisi delle ideologie, dello stato e di ogni possibile dimensione collettiva, non potrebbe essere riassunto meglio che in queste parole del sociologo polacco: “ci si sente liberi nella misura in cui l’immaginazione non supera i desideri reali e nessuno dei due oltrepassa la capacità di agire[2]. È interessante osservare come in questo modo non solo la nostra capacità immaginativa ma anche il nostro voler essere soggetti attivi, vivi e vitali tende ad autolimitarsi, accontentandosi di soddisfare i più immediati bisogni materiali e consumistici in nome di una falsa sensazione – appunto – di libertà.

Una delle conseguenze più tragiche di questo nuovo approccio, citando ancora Bauman, è che “in questo mondo nuovo si chiede agli uomini di cercare soluzioni private a problemi di origine sociale, anziché soluzioni di origine sociale a problemi privati”. Il diritto, che in quanto insieme delle norme che regolano proprio la convivenza tra simili è la struttura lessicale e cognitiva che sorregge ogni società, non poteva certo essere immune da questo rivolgimento, o stravolgimento che dir si voglia. Non è però al profilo strutturale e tecnico che intendo però fare riferimento (e quindi al ruolo della globalizzazione economica nella formulazione del diritto internazionale; alla crisi di quest’ultimo di fronte ai tragici conflitti recenti e, purtroppo, ancora in atto; all’affermarsi di una lettura economica del diritto inevitabile conseguenza del neoliberismo ormai dominante e così via), ma a quello individuale. Quello che incontriamo nella vita di tutti i giorni, nelle nostre relazioni quotidiane. È su questo piano che l’individualismo determina un fenomeno quanto mai interessante per il giurista: la moltiplicazione dei diritti individuali, che conduce da un lato al depotenziamento del concetto stesso di diritto e, dall’altro, alla lenta scomparsa del valore della responsabilità individuale.

È sempre più difficile distinguere, in tale ottica, tra un diritto da tutelare e una semplice aspirazione. Ogni nostro desiderio, oggi, sembra essere in fondo riconducibile a un diritto al quale non intendiamo rinunciare, in nome del nostro “diritto di avere diritti”. Quest’ultima, fortunata espressione coniata - sulla base delle parole di Hannah Arendt - da quel grande pensatore della modernità giuridica che è stato Stefano Rodotà[3] può e deve essere quindi utilizzata anche in senso paradossalmente opposto rispetto a quello delineato da quest’ultimo: per segnalare, appunto, come l’esaltazione del piano individuale, con la pretesa di vedere considerata ogni legittima aspettativa come diritto concretamente tutelabile, non sia affatto opzione priva di pericoli. Non mi interessano tanto, al riguardo, le polemiche che sul piano politico e dei mass media hanno accompagnato questa definizione[4]. Se però, tanto per fare un esempio, la Corte Costituzionale si è dovuta occupare in diverse occasioni di fissare un preciso discrimine tra aspettative e diritti costituzionalmente garantiti[5], vuol dire che un problema del genere esiste di sicuro: e prima ancora che sul piano tecnico-giuridico, su quello sociale e culturale.

È proprio quest’ultimo l’aspetto che ritengo maggiormente interessante, perché conduce a due problematiche che dovrebbero essere oggetto di riflessione da parte di tutti noi: il rischio da un lato, della violenza insita in un concetto di diritto asservito all’individualismo; dall’altro, della scomparsa del valore – parallelo, ma non meno importante – della responsabilità individuale; anzi, “delle” responsabilità individuali che tutti noi abbiamo nei confronti della collettività e di ogni singolo componente di quest’ultima. In questa ottica, particolarmente utili sono le riflessioni sul pensiero di Simone Weil contenute in un recente, pregevole scritto di Tommaso Greco[6]. Sotto il primo profilo, infatti, il pensiero weiliano dimostra chiaramente come il concetto stesso di diritto soggettivo, quando è di fatto posto a tutela dell’individualismo a causa della correlata assenza di cura e di ascolto per l’altro – per ogni possibile “altro” – diventi terribile espressione di forza, volta ad aumentare la separazione tra i soggetti e non a favorirne la pacifica convivenza[7].

In più, e sul secondo piano di riflessione, l’esaltazione dell’“io ho il diritto di” toglie inevitabilmente spazio e luce all’altrettanto importante assioma per cui la convivenza non implica soltanto posizioni soggettive concretamente tutelabili ma anche ben precisi doveri. Non è affatto un caso che, nel mirabile equilibrio di pesi e contrappesi che è a ben vedere il cuore pulsante della nostra Costituzione, la Parte Prima della Carta – ed in particolare il mirabile articolo 2 - ponga sullo stesso piano gli uni e gli altri, parificando sul piano valoriale prima ancora che semantico i diritti ai doveri e viceversa. E ancora una volta – ma qui va aggiunto un “purtroppo” – non è un caso che proprio questa equiparazione in un reciproco bilanciamento sia vista con sempre maggior sfavore da chi ha la pretesa di “modernizzare la Costituzione” rendendola più in sintonia con i tempi che viviamo.

In questo modo, però, si dimentica che la Carta Costituzionale non è un appartamento da riarredare a ogni mutamento di stile e di moda, ma un organismo vivente che è pienamente in grado di crescere e di evolversi al passo della società, garantendo i valori fondamentali che la sostengono.  È proprio la Costituzione, quindi, a ricordarci – fino a quando gliene sarà data la possibilità – la distinzione fondamentale tra rispetto non negoziabile della dignità di ciascun individuo ed egoismo individualistico: e questo, grazie proprio al richiamo al necessario bilanciamento tra diritti e doveri, tra pretese legittime e responsabilità individuali e collettive.

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[1] A leggerne con la dovuta attenzione le pagine, infatti, Stirner non nega affatto che l’uomo abbia un’innata pulsione alla socialità. La condizione originaria dell’umano, infatti, non è l’isolamento o la solitudine ma proprio il vivere con gli altri. Quel che secondo lui va impedito, però, è che questa convivenza si poggi non su di una libera scelta ma su di una costrizione fatta di regole rigide e di dogmi non contestabili. Di qui la distinzione tra stato e associazione, il primo destinato a sopprimere l’unicità dell’individuo esigendone l’adorazione assoluta e la seconda che, al contrario, è frutto positivo proprio dell’apporto di ciascun consociato. Alla luce delle brevi considerazioni che espongo nel testo, si tratta di un pensiero originale e interessante che andrebbe quindi rivalutato, depurandolo da paragoni affrettati e semplificazioni eccessive.

[2] Z. Bauman, Modernità liquida, 2011.

[3] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, 2015.

[4] Basterà citare, al riguardo, la discussione sorta intorno al termine “dirittismo” che segnalerebbe, per l’appunto, la presunta tendenza ad ampliare oltre il democraticamente sostenibile il contenuto dei diritti individuali garantiti dalla Costituzione: così A. Barbano, Troppi diritti, 2018. Personalmente, condivido le più moderate e approfondite considerazioni di G.Zagrebelsky, Diritti per forza, 2017.

[5] Valga per tutti il dibattito in ordine all’esistenza di un vero e proprio diritto alla genitorialità, che la Consulta ha ritenuto non sussistente in termini assoluti, riferibili cioè “all’an, al quando e al quomodo” (Corte Cost., 79/2022, punto 5.2.3): nel che, dimostrando ancora una volta che è proprio il necessario contemperamento con tutte le diverse esigenze di segno anche opposto che rende un diritto individuale concretamente tutelabile, a differenza delle semplici e comprensibili aspettative individuali di ognuno di noi.

[6] T. Greco, Curare il mondo con Simone Weil, 2023

[7]Parole come “ho il diritto di…”, “non ha il diritto di...” racchiudono una guerra latente e svegliano uno spirito di guerra. La nozione di diritto, posta al centro dei conflitti sociali, rende impossibile sia da una parte che dall’altra ogni sfumatura di carità”. Così S.Weil, La persona e il sacro, in Morale e letteratura, a cura di N. Maroger, Pisa, 1990, p.50-52

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