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Uighuri, indipendenza entro 50 anni?

somiglianze e differenze con il Tibet

Gli uighuri abitano lo Xinjiang, o Turkestan orientale, la regione più a ovest della Cina. È un’area sostanzialmente desertica, che comprende il 17% del territorio del Paese ma soltanto il 2% dei suoi abitanti. La zona confina con Russia, India, Mongolia, Afghanistan, Tagikistan, Kazakistan e Pakistan. In essa l’elemento uighuro forma il 46% della popolazione, musulmani di lingua turcofona che lottano per l’autonomia fin dalla prima metà del XX secolo. Gli uighuri sono molto diversi per tratti somatici e cultura dall’etnia han dominante in Cina. 

Gli han presenti nella regione vi sono giunti negli anni Novanta, quando Pechino iniziò la campagna “go West”, per colonizzare la parte occidentale del Paese, a cominciare naturalmente dalle terre più ricche di idrocarburi. Con il loro tipico linguaggio metaforico, i governanti cinesi dichiaravano l’intento di “rafforzare il cemento”, come se i difficili equilibri fra i popoli si potessero paragonare a materiale da costruzione, di cui l’elemento han era il più pregiato. 

In seguito a questa “sinizzazione” della regione, che comportava anche un grado di favoritismo nell’accesso ai posti di lavoro e all’istruzione per i cinesi han, si sono formati diversi movimenti separatisti uighuri, alcuni dei quali legati ad Al Qaeda. Il 28 ottobre 2013 proprio un commando di questi terroristi si è lanciato a tutta velocità contro l’ingresso principale della Città Proibita a Pechino, a bordo di una jeep. Da allora, quella che è definita ormai da molti giornali “la guerra della Cina agli uighuri” si è molto intensificata. 

Interessante è vedere le cause di questo conflitto per la sovranità sulla “Nuova frontiera”, il significato del toponimo Xinjiang che curiosamente rievoca il grande o “lontano West” degli Stati Uniti. Non solo petrolio, ma anche guerra al terrorismo - combattuta tra l'altro anche con i mezzi tecnologici, imponendo filtri e controlli ai social network - e una divergenza sulla forma di Stato, che si riscontra anche presso leader pacifici come la Presidente degli uighuri in esilio, Rebiya Kadeer. 

Lo Xinjiang è uno snodo cruciale per gli scambi commerciali tra Asia Centrale ed Europa. Chi c’è stato racconta che città uighure come Kashgar, culle della religione islamica, appaiono più simili alle medine arabe che non ai centri urbani cinesi. E questo anche all’alba, quando la decisione di Pechino di mantenere lo stesso fuso orario anche in questa regione remota e riottosa comporta qualche ora di buio assoluto. Un buio che è anche buio della memoria, se si conta che quasi tutti gli uighuri hanno avuto parenti arrestati, pestati, torturati e discriminati in vario modo anche quotidianamente. Un problema che si è aggravato, ed è arrivato fino alle assemblee dell’ONU sulla Siria, quando Pechino ha cercato di giustificare il suo comportamento con la “guerra al terrorismo”, perché effettivamente esistono sigle come il Movimento Islamico del Turkestan o il Partito Islamico del Turkestan che sono legate al terrorismo dei Paesi islamici confinanti. Il governo cinese considera quello uighuro un “terrorismo separatista”. 

In realtà gli uighuri, e i musulmani del resto, non sono tutti terroristi. È vero che alcuni elementi della protesta uighura hanno inquietanti relazioni con forze islamiste dei Paesi confinanti o della Turchia, ma dal canto suo Pechino, come ha già fatto in Tibet, attacca anche popoli antichi, di forte tradizione religiosa (nel caso del Tibet buddista), per imporre l'ateismo di Stato, tutelando al contempo interessi economici e strategici.  

Tradizionalmente, gli uighuri propugnano una forma federale dello Stato cinese. Una delle ragioni è che in aree così remote non è stato raggiunto il “miracolo economico” di città come Shanghai e Hong Kong, e pertanto l’insoddisfazione per gli scarsi benefici dell’appartenenza alla Cina è dettata anche dalla povertà e dall’arretratezza. Anche al di fuori della regione, poi, i cinesi han spesso preferiscono non offrire lavoro agli uighuri, considerati tradizionalmente poco affidabili non per ragioni politiche, ma per la forza di stereotipi antichi.

Veniamo al legame con il Tibet. Rebiya Kadeer, imprenditrice uighura di successo, ha affrontato il carcere e l’esilio prima per denunciare una strage di uighuri nel 1997, poi per richiedere autonomia per il suo popolo. La rivendicazione dell'indipendenza è stato l'esito di un processo nella quale ha subito discriminazioni e repressioni. Pechino accusa anche lei di essere una “terrorista separatista”, ma lei afferma mitemente di non averne né la volontà né la forza fisica o militare. 


Senza armi, la donna, madre di 11 figli, il che forse fa capire il peso della religione in questa contesa, è molto determinata e vorrebbe ottenere risultati più rapidi rispetto ai tibetani. “Vorrei seguire il percorso del Dalai Lama nella sua battaglia per il Tibet, - ha dichiarato. - Viaggio in tutto il mondo per dire la verità su quello che fa il governo cinese. Ma io sono diversa dal Dalai Lama: io non voglio aspettare 50 anni".

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