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A chi scriverebbe oggi Armin Wegner?

di Gabriele Nissim

Armin Wegner

Armin Wegner

Agli studenti e agli insegnanti che si appassionano alle storie dei Giusti suggerisco un esercizio per rendere attiva la memoria e farla diventare una fonte di insegnamento nel nostro tempo.
Immergendosi nella loro storia (come faceva Michael Montaigne quando cercava una simbiosi esistenziale con la vita del suo migliore amico, Étienne de La Boétie), si può scoprire che alcune delle loro azioni ci possono essere utili per il nostro agire e diventare un punto riferimento morale.

Come scriveva Agnes Heller nell’Etica della personalità, non c’è uomo al mondo che non abbia bisogno di un sostegno culturale per orientarsi. Potrebbe essere il libro di uno scrittore, di un filosofo, di uno scienziato, ma potrebbe essere anche il racconto di un uomo Giusto che ha lasciato delle tracce nella Storia.
Con lui si può praticare un’amicizia particolare che non sostituisce quella in carne ed ossa nella vita reale, ma che ci può stimolare all’esercizio della virtù e della conoscenza.

Prendiamo per esempio la vicenda dello scrittore tedesco Armin Wegner, unico caso nella storia di un uomo che è stato riconosciuto come Giusto dagli armeni e dagli ebrei per avere compiuto degli atti di coraggio durante i due genocidi del Novecento.
Quando ho indagato la sua storia, che nel 2015 mi ha portato a scrivere La lettera a Hitler (Mondadori), ero rimasto impressionato dalla sua ostinazione nell'indirizzare lettere ai potenti della Terra ogni volta che la Storia andava in una cattiva direzione.

Quale era il suo scopo ? Probabilmente c’era un po’ di narcisismo, perché Armin come intellettuale aveva un’alta considerazione di se stesso e gli piaceva molto immaginare che le sue parole potessero avere un grande effetto ed entrare nella storia. Per questo, dopo la guerra e i lunghi anni dell’esilio in Italia, non volle mai ritornare in Germania e visse sempre amareggiato prima a Roma e poi a Stromboli, perché si aspettava - invano - di venire richiamato in patria con tutti gli onori per la sua opposizione a Hitler.

Eppure nelle sue lettere indirizzate a grandi personaggi pubblici c’erano due intuizioni su cui vale la pena di riflettere.

Wegner riteneva che i leader politici nelle emergenze possono sempre fare la differenza, alla stregua del capitano di una nave nel mare in tempesta, costretto a fare delle manovre fuori dalla norma per salvare il suo equipaggio. Chi ha il potere, quindi, può cambiare qualche volta il corso degli avvenimenti, anche in un contesto politico degenerato. E lo può fare se ha il coraggio di ammettere con sincerità i propri errori. Per questo Armin Wegner amava pungolare i leader mondiali richiamandoli ad ascoltare la loro coscienza. Era fiducioso come Socrate che un uomo attraverso una sollecitazione morale potesse ritornare su suoi passi, assumersi una responsabilità e agire in un modo inaspettato.

Scrisse così il 13 gennaio del 1919 una lettera a Karl Liebknecht, l’organizzaztore della rivolta spartachista in Germania repressa nel sangue, per chiedergli di abbandonare l’uso della violenza. Aveva capito che la violenza dei rivoluzionari arrecava il maggiore danno proprio ai ceti politici che volevano rappresentare. Gli estremisti aiutavano le destre. “È certo che l’amore [dei diseredati] non può mai servirsi della violenza per stabilire il proprio dominio… come è altrettanto certo che la violenza ha portato alla rovina tutti coloro che vi sono dati.”
Era troppo tardi. Due giorni dopo la sua lettera aperta Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg furono assassinati.

Scrisse il 23 febbraio 1919 al presidente Woodrow Wilson per chiedere che l’America venisse in soccorso della nazione armena dopo il genocidio, garantendole la possibilità di costruire uno Stato indipendente che comprendesse i territori armeni della Russia e le province dell’Anatolia e della Cilicia. Armin era stato testimone dei crimini dei turchi quando era stato trasferito a Bagdad come ufficiale sanitario nell’esercito tedesco del feldmaresciallo von der Golz.
“Oso intervenire e chiedere, perché se anche dopo questa guerra l’Armenia non vedesse riconosciuti e riparati i suoi tremendi dolori, sarebbe perduta per sempre…Non pretendo di ricevere una risposta a questa lettera, ma se Lei, signor Presidente, ha veramente adottato come criterio della sua politica l’idea di aiutare i popoli oppressi, allora non potrà disconoscere che anche attraverso le mie parole parla una voce potente, l’unica che ha diritto di essere ascoltata in ogni tempo, la voce dell’umanità.”

Dopo avere visitato la Russia nel 1928 assieme ad un gruppo di intellettuali tedeschi che erano stati sedotti dalla Rivoluzione bolscevica, Armin Wegner intuì che era nato un regime dispotico che con il terrore stava reprimendo la libertà di pensiero. Scrisse così una lettera di protesta a Maksim Gor’kij, lo scrittore considerato il beniamino del regime sovietico.
“Il sapere dovrebbe servire alla liberazione dell’uomo e non al suo asservimento, invece in Russia si esprime con lo stesso fanatismo intollerante con il quale la chiesa un tempo predicò le sue dottrine. Si portano via i libri dalle biblioteche, si ingiuria ogni opinione difforme e si impone con il terrore la nuova ideologia come se fosse una scienza infallibile. Così facendo si elimina ciò che è più fertile per lo sviluppo di una nazione: il dubbio.”

La lettera più famosa è tuttavia quella che Armin Wegner inoltrò ad Adolf Hitler nell’aprile del 1933, poco dopo la sua ascesa al potere e il varo delle prime misure antisemite, che provocarono a Berlino un assalto organizzato nei negozi gestiti dai commercianti ebrei.
Lo scrittore tedesco fu il primo a intuire che l’odio di Stato verso gli ebrei stava portando il Paese a una catastrofe inimmaginabile e che ciò avrebbe infangato l’immagine della Germania per molte generazioni. Perseguitando gli ebrei, i tedeschi facevano del male anche a loro stessi. Ecco perché Armin Wegner intitolò il suo testo: lettera per la Germania.
Signor Cancelliere del Reich, non si tratta solo del destino degli ebrei, ma si tratta del destino della Germania… Fermi queste azioni senza senso. L’ebraismo è sopravvissuto ad altri pericoli: alla prigionia babilonese, alla schiavitù in Egitto, ai tribunali dell’Inquisizione spagnola, alle persecuzioni delle Crociate, al Medio Evo, alle persecuzioni del Seicento in Russia… gli ebrei riusciranno a superare anche questo pericolo, ma la vergogna cui va incontro la Germania a causa di ciò non sarà dimenticata per lungo tempo! Infatti, su chi cadrà un giorno lo stesso colpo che ora si vuole assestare agli ebrei, se non su noi stessi!”
Parole profetiche che gli costarono l’arresto e la tortura in un campo di prigionia a Berlino.

E tante ancora furono le sue lettere: a Mussolini, a Nasser, a Thomas Mann, ai dirigenti israeliani dopo la nascita dello Stato ebraico nel 1948 - in cui li esortava a vincere la battaglia morale nei confronti dei loro nemici arabi, poiché solo imparando a convivere con loro avrebbero vinto veramente la Guerra di indipendenza.

A chi avrebbe scritto oggi Armin Wegner e quali argomenti avrebbe usato?
È questo l’esercizio di immaginazione che possiamo fare prima di tutto per porci delle domande sulla crisi che viviamo di fronte all’epidemia, ma anche per esigere comportamenti diversi da parte dei governanti e per supplire - nel nostro ambito di responsabilità - a quanto è mancato nella politica.

Immagino che lo scrittore tedesco si sarebbe rivolto al presidente cinese Xi Jinping per chiedergli come mai per settimane avesse bloccato le informazioni sull’esplosione dell’epidemia e non si fosse preoccupato di fornire tutte le informazioni al mondo intero, in modo che i Paesi potessero implementare fin da subito le misure adeguate. Ancora oggi nessuno conosce i numeri reali delle vittime del virus in Cina. Il leader cinese all’inizio aveva usato le armi della censura per coprire la gravità della situazione e poi, accortosi che non era più possibile nascondere la diffusione del virus, aveva ritenuto che l’epidemia fosse una minaccia che riguardava solo la Cina e non la salute dell’intero pianeta.
“Perché Lei non ci ha detto la verità e si è preoccupato soltanto del funzionamento del suo regime illiberale e totalitario? Perché non ammette i suoi errori e le sue omissioni? Perché non ha mai pensato che con l’epidemia di Covid fosse in pericolo la salute dell’intero pianeta? Il suo Paese potrà ritrovare nel mondo una buona reputazione soltanto se Lei farà un esame di coscienza: ammetta di fronte al mondo le sue responsabilità.”

Una seconda lettera Armin Wegner l’avrebbe probabilmente scritta al presidente americano Donald Trump che per settimane continuò a sottovalutare il pericolo del contagio, presentando il Coronavirus come una influenza con un più alto tasso di mortalità. Come ricorda il New York Times non solo non ascoltò i moniti degli epidemiologici che non approvavano la sua leggerezza, ma anche una nota scritta del suo consigliere commerciale Peter Navarro del 29 gennaio che lo invitò invano a prendere urgentemente delle misure di contenimento per non mettere a rischio la vita di milioni di americani.
“Presidente, perché non riscopre l'umiltà, senza insultare sui social le persone che non la pensano come Lei. Il leader di una grande potenza democratica come l’America dovrebbe unire le persone e avere sempre il coraggio di ammettere i suoi errori per dimostrarsi credibile di fronte al mondo. Lei si è presentato con lo slogan American First. Abbia il coraggio di dire che in questa crisi che minaccia l’umanità intera la sua prospettiva si è dimostrata sbagliata. Perché non prende come esempio i grandi presidenti americani come Franklin Roosevelt e John Kennedy, che cercarono di unire il mondo intero durante la guerra al nazismo e negli anni difficili della Guerra Fredda? Lei dovrebbe chiamare tutti i leader del mondo a cooperare per sconfiggere l’epidemia, non dimenticando di aiutare i Paesi più poveri e i diseredati della terra, che vivono nei campi profughi e in situazioni estreme di povertà in Africa come in America Latina. È tempo che l’America riprenda il suo ruolo di leadership democratica del mondo e diventi un esempio per tutti.”

Una terza lettera, che ci riguarda da vicino, Wegner l’avrebbe intitolata “Per l’Europa” e l’avrebbe mandata alla presidentessa della Commissione europea Ursula von der Leyen affinché la inoltrasse a tutti i capi di Stato della Comunità.
“Oggi siamo di fronte a tre pericoli che possono incrinare in modo irreparabile i sogni dei padri fondatori dell’Europa. Ci sono leader egoisti che ritengono di non dovere aiutare i Paesi più deboli e vulnerabili e sono restii ad accettare delle misure che permettano il salvataggio delle economie più fragili; ci sono poi leader, come l’ungherese Viktor Orbán, che usano l’epidemia per minare le regole della vita democratica e si danno da fare per creare dei regimi autoritari che mettono così in discussione le conquiste fondamentali delle democrazie risorte in Europa dopo la fine dei totalitarismi; ci sono infine gruppi politici di estrema destra che usano l’epidemia per scardinare la Comunità europea e vogliono il ritorno a quei nazionalismi che portarono a due guerre mondiali.
Tutti costoro forse non se ne rendono conto, ma se prevalessero le loro idee esse contagerebbero l’Europa con un nuovo virus altrettanto pericoloso che metterebbe in pericolo il futuro delle prossime generazioni. Sono però convinto che se Lei, presidentessa Ursula von der Leyen, mostrerà coraggio e chiamerà alla responsabilità ogni cittadino europeo, indipendentemente dal ruolo che occupa, saremmo in grado non solo di salvare l’Europa, ma di riprogettare una idealità democratica e un nuovo senso di solidarietà che ci aiuterà a vincere questa emergenza.
Illustre Presidentessa, il virus non sarà sconfitto da medici, scienziati ed epidemiologi, se essi non sono affiancati da popoli guidati da statisti in grado di trasmettere fiducia, speranza, senso dell’umanità e altruismo. Mi permetta di dirle una cosa con franchezza: chi oggi è egoista e cerca il potere personale ci farà perdere questa battaglia. Ecco perchè le chiedo di fare sentire la voce dell’Europa.”

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

8 aprile 2020

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