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Il pericolo dell’antisemitismo e il meccanismo della divisione tra ebrei e non ebrei

di Gabriele Nissim

Ci sono dei momenti nella vita pubblica in cui diventa necessario fare dei gesti simbolici che chiamino tutti a essere responsabili verso fenomeni pericolosi che attraversano la nostra società. 

Non si può più tollerare che nelle manifestazioni a sostegno della Palestina ci siano attacchi agli ebrei come è accaduto recentemente a Roma, dove Liliana Segre non solo è stata definita dal capo urlante del corteo come una vittima esagerata che vuole avere il monopolio della sofferenza ma è stata anche attaccata per non avere definito la situazione di Gaza come un genocidio. L’ebreo che non pronuncia questa parola viene considerato da questi gruppi come un nemico da additare al pubblico biasimo.

Contemporaneamente, alcuni personaggi noti, come Maurizio Molinari o David Parenzo, sono stati oggetto di censura violenta nelle università e altri, come il consigliere comunale a Milano Daniele Nahum, sono attaccati e minacciati sui social media.

Il fenomeno mi ricorda quanto accadde in Polonia nel 1968 al tempo di Władysław Gomulka, quando gli ebrei erano chiamati dal partito comunista a fare un mea culpa per le loro supposte simpatie per Israele al tempo della Guerra dei sei giorni. Naturalmente, nel nostro caso il fenomeno di censura non viene fortunatamente dalle istituzioni (saremmo in una dittatura) ma è invece espressione di movimenti giovanili, in cui, come avviene in Inghilterra e in Francia, c’è una grande presenza di immigrati di provenienza araba e musulmana.

L’ebreo che vive qui, indipendentemente da tutte le sue opinioni sul conflitto, diventa colpevole se non dichiara che Israele sta commettendo un genocidio contro i palestinesi. E dietro a queste accuse c’è un concetto più sottile. Un ebreo in quanto tale ha una colpa che va oltre al suo essere e il suo agire nella società. Viene considerato responsabile ontologicamente per tutto quello che accade in Medio Oriente. Al tempo del fascismo, la colpa da cui nessun ebreo poteva sottrarsi era la sua “razza”. Oggi invece la questione palestinese diventa il marchio negativo attraverso cui definire l’ebreo: sei ebreo e dunque, direttamente o indirettamente, sei chiamato a rispondere dei massacri di Gaza.

A nessuno verrebbe mai in mente di accusare un americano che vive in Italia per quello che è accaduto in Vietnam o per i propositi antidemocratici di Trump; recentemente abbiamo visto, per esempio, come ci sia stato un moto spontaneo di solidarietà quando alcuni avevano cercato di forzare intellettuali russi che vivono in Italia a prendere le distanze da Putin. Immediatamente, e giustamente, si è detto di non confondere la cultura russa, con il comportamento degli attuali governanti.

A nessun musulmano che vive in Italia viene imputato il carattere dei regimi teocratici in Iran o in Arabia Saudita, o l’esistenza dei regimi dittatoriali o semidittatoriali in Egitto, Siria o Turchia. Per l’ebreo invece è diverso. Colpevole perché immaginato come la quinta colonna di Israele. Non importa nemmeno se ha posizioni critiche su Israele o se immagina un sionismo diverso, che ritorni alle sue origini. Anzi, proprio gli stessi aperti al dialogo e al pacifismo finiscono sotto il tritacarne della critica feroce, perché si deve a tutti costi mantenere l’equazione tra ebrei ed Israele e trovare un facile capo espiatorio. In questa messa sotto accusa dell’ebreo c’è anche una simbologia. Viene identificato come il simbolo dell’occidente negativo, colonizzatore, imperialista.

Importante è ragionare su questo fenomeno. Negli anni sessanta-settanta la critica antioccidentale nasceva a seguito del movimento anticolonialista, della guerra del Vietnam, delle responsabilità americane nelle dittature dell’America Latina. C’era una ragione importante. Oggi invece l’antioccidentalismo è la bandiera della Russia di Putin, delle peggiori autocrazie e dittature, dei regimi teocratici e fondamentalisti.

Così, l’ebreo non rappresenta più solo il “male di Israele”, ma il guerrafondaio che non si vorrebbe adeguare a questi regimi. Alcuni lo dicono perché considerano la Russia, Hamas, l’Iran, la Cina come portatori di istanze progressiste. Altri invece perché ritengono che per difendere la nostra pace privilegiata sia necessario prima o poi accordarsi con questi regimi. E questa seconda simbologia è la più pericolosa, perché il dibattito sulla pace è il tema più sentito che divide l’Occidente nel mondo incerto in cui viviamo. Presentare qualcuno come nemico della pace crea grandi consensi.

Quale è poi l’effetto di queste manifestazioni di colpevolizzazione del mondo ebraico per la situazione di Gaza?

Quando gli ebrei giustamente reagiscono pubblicamente a queste forme di intolleranza si verifica un fenomeno che va studiato in profondità. Nella misura in cui essi si espongono paradossalmente si crea una trappola pericolosa, non solo per i gruppi minoritari che li attaccano ma per la stessa opinione pubblica, ossia la falsa rappresentazione che gli ebrei siano una alterità non ricomponibile nella nostra società. Il meccanismo perverso della differenza tra ebrei e non ebrei caro agli antisemiti.

Edgar Morin, il filosofo francese originario di Salonicco, ha coniato alcuni concetti importanti per definire gli ebrei moderni integrati nella cultura europea. Ha usato il concetto di neo-marrano per definire la loro apertura cosmopolita: individui che si sentono al contempo ebrei e gentili e vivono come ricchezza le loro molteplici identità. In Italia chi si definiva, con orgoglio, in questo modo era lo scrittore e giornalista Arrigo Levi, come racconta Stefano Jesurum nel suo bel libro “Essere Ebrei in Italia” (Longanesi 1987). Ricordiamo a questo proposito alcune grandi menti della cultura europea, come Michel Eyquem de Montaigne, Étienne de La Boetié, Baruch Spinoza, Miguel de Cervantes, Marcel Proust, Sigmund Freud che manifestavano apertamente una doppia appartenenza.

Queste figure hanno aperto la strada alla modernità e all’idea di una identità che andava oltre a una propria etnia. In fondo la stessa idea di Europa, immaginata da Altiero Spinelli come alternativa alle macerie della Seconda guerra mondiale, non solo è nata per il contributo di questi ebrei, ma ha fatto sua questa idea di molteplicità, fino alla visione di una patria comune che andava oltre ai propri confini e legami originari.

Oggi correnti di pensiero avverse all’idea di Europa e che ripropongono identità chiuse e il ritorno ai nazionalismi hanno messo sotto accusa coloro che sono individuati come portatori di mentalità cosmopolite, come nel caso simbolico del finanziere ebreo Georges Soros, indicato come il deus ex machina di supposte sostituzioni etniche.

Il nazionalismo ha sempre visto storicamente nell’ebreo un nemico, come corruttore dell’identità nazionale. Si sono visti questi segni pericolosi nell’America di Trump, che ancora ieri ha messo sotto accusa gli ebrei democratici, nell’Ungheria di Orban e nella stessa Russia di Putin, che ha riproposto il vecchio armamentario dell’antisionismo. Oggi può sembrare che le manifestazioni di intolleranza verso gli ebrei riguardino solo la questione mediorientale e siano opera solo di gruppi ideologizzati antioccidentali. Se però le istituzioni rimangono distratte e lasciano fare, come se questi fossero soltanto episodi marginali, potremmo avere delle sorprese. L’antisionismo radicale e antioccidentale si potrebbe saldare con il sottile antisemitismo della destra xenofoba e antieuropea, e negli stessi ebrei, per autodifesa, si potrebbe innestare un meccanismo di separazione che incrinerebbe la stessa mentalità aperta degli ebrei cosmopoliti, così bene descritti da Edgar Morin. Vincerebbe l’idea di una singolarità ebraica assoluta, che a sua volta alimenterebbe per reazione l’antisemitismo.

Non vogliamo fare i profeti di sventure e neppure creare allarmismi, ma se oggi in Italia l’insieme delle forze culturali e politiche non lanciano un inequivocabile segnale morale contro ogni manifestazione di intolleranza c’è il pericolo concreto che l’antisemitismo non venga più considerato come tale e sia persino legittimato.
Per questo, Gariwo lancia un appello affinché ci sia un impegno comune per stroncare sul nascere ogni forma di colpevolizzazione antisemita e ogni Giardino dei Giusti diventi una barriera contro ogni forma esplicita o mascherata di intolleranza verso gli ebrei italiani.
Una volta quando la politica non dimenticava il suo ruolo morale forze diverse si univano sulle emergenze fondamentali e lanciavano messaggi chiari all’opinione pubblica. Per questo mi piace sognare un patto morale comune contro l’antisemitismo votato dal nostro parlamento e non affidato solo alla voce solitaria del Presidente della Repubblica. Se sono solo gli ebrei a reagire non solo è una sconfitta, ma è segno di una pericolosa separatezza tra ebrei e non ebrei che potrebbe creare nuove macerie.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

20 marzo 2024

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