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La Germania e il Coronavirus

di Simone Zoppellaro

DA STOCCARDA – Questa crisi ci ha allontanato tutti, in Europa. Non solo i confini fisici fra nazione e nazione hanno ritrovato – forse inaspettatamente, di sicuro con una velocità tale che non ci ha lasciato neppure il tempo di riflettere – una loro spettrale centralità; anche quelli mentali, fra “noi” e “loro”, certo non meno rilevanti, se la storia può insegnarci qualcosa, si fanno oggi sentire, pesanti come macigni. È difficile per molti di noi, in questo momento storico, essere in pace con la nostra identità transnazionale (italo-tedesca, nel mio caso) e, ancor di più, sentirsi o professarsi europei.

Qui a Stoccarda, dove sono stati identificati circa un terzo dei contagi del Baden-Württemberg, stato secondo solo alla Renania Settentrionale-Vestfalia a livello nazionale per numero di casi, la crisi negli ultimi giorni ha iniziato a pesare. Se non si è arrivati ancora alle tante limitazioni che stanno rendendo così difficile la vita di molti in Italia, certo è che anche qui l’esistenza di tutti noi è stata trasformata dal virus. Bloccata la larga parte della produzione (fra cui, per intero, quella del settore automobilistico), chiuse scuole e asili, insieme a luoghi di culto, ristoranti e ai negozi, ai centri per le attività sportive e culturali (teatri, musei, ecc.). Le strade sono semideserte, il lavoro da casa assai più la regola che l’eccezione.

È stato un percorso lungo e non indolore, per molti tedeschi, arrivare ad accettare di mettere in atto misure non dissimili, anche se su scala ridotta, da quelle presenti in Italia. Pesavano e pesano ancora preoccupazioni economiche, certo, ma anche l’illusione che non potesse toccare anche a noi, qui, quanto avvenuto prima in Cina e poi in Italia. La reazione, una volta presa coscienza della realtà, è stata rapida e responsabile. L’ultimo weekend, secondo le parole stesse del governo, è stato un banco di prova per la scelta se attuare o meno un lockdown completo. Ci si è rivolti ai cittadini, chiedendo loro di impegnarsi a stare a casa e evitare feste e assembramenti, pena misure più dure per la vita di tutti.

Ha funzionato. E così non è stato necessario un ulteriore inasprimento delle misure. Si può ancora uscire, massimo due persone per volta (a parte le famiglie, che possono andare oltre questo numero), pur mantenendo distanze di sicurezza gli uni dagli altri. Il sistema sanitario regge. Pazienti contagiati della vicina Alsazia sono in cura qui in Baden-Württemberg, mentre la Sassonia (assai meno toccata dal virus, come tutto l’est tedesco) ha accolto nelle sue strutture alcuni malati fatti arrivare dalla Lombardia.

Too little, too late, diranno in molti. Purtroppo la paura, il focalizzarsi sulla crisi interna (comunque dura: 171 morti, mentre scrivo, oltre al fatto che l’industria e l’economia tedesca potrebbero uscirne assai male), insieme ai confini fisici e mentali di cui sopra, ha determinato un ripiegamento di cui l’Europa pagherà il prezzo ben oltre la fine di questa crisi. Archiviato il comunismo, se c’è uno spettro che si aggira per il nostro continente oggi, alla prova del virus, è l’Europa medesima (che non va affondata, ma rifondata – ne ero e resto convinto).

Tanti, ben organizzati e rapidi, invece, gli interventi a livello locale per proteggere i più deboli (anziani, malati e portatori di handicap) dal contagio e dalle conseguenze delle limitazioni imposte alla cittadinanza. Una gara per la solidarietà che ha investito il mondo associazionistico, passando per la rete, ma anche tanti semplici cittadini che lasciano i propri contatti su fogli appesi ai muri e ai lampioni per chi abbia bisogno di aiuto.

Certo è che la struttura sociale e abitativa, meno familistica e più individualistica, lontana per tradizione dagli spazi pubblici (la piazza, il bar, il locale per l’aperitivo) si è dimostrata un punto determinante nell’impedire in Germania un’esplosione di contagi simile a quella avvenuta in Lombardia. Il vantaggio di poter studiare la crisi in Italia con un discreto anticipo rispetto ai contagi di qui, oltre alla reazione ben calibrata e armonica (nonostante alcune contraddizioni iniziali) delle istituzioni nazionali e locali, hanno determinato un contenimento superiore non solo all’Italia, ma anche a larga parte dei Paesi dell’Europa centrale e occidentale. Il senso (e la cura) con cui per decenni i tedeschi hanno guardato al loro stato, piaccia o meno, hanno fatto la differenza. Certo, il pericolo concreto di un tracollo economico (se la crisi dovesse protrarsi troppo a lungo) che finirebbe per colpire le classi più deboli è ancora presente; ma rispetto ai suoi vicini, almeno allo stato attuale, è assai verosimile che la Germania ne esca meglio. Più unita al suo interno e meno lontana dalle sue istituzioni, per le quali la fiducia resta alta.

Inutile e irresponsabile, in questo momento, sarebbe azzardare previsioni. Mi limito dunque a un auspicio: quello che questa crisi, una volta conclusa, porti noi europei a riflettere sulla necessità di rifondare e rilanciare dal basso il progetto comunitario. I pericoli all’orizzonte, per noi tutti, sono tantissimi. Ma anche le opportunità. Dobbiamo ricominciare a sognare e a agire, noi in prima persona come società civile, prima che l’attuale realtà di limitazioni e confini, dovute certo a ottime ragioni di contingenza, si trasformi negli anni a venire nella nostra normalità di tutti i giorni.

Simone Zoppellaro

Analisi di Simone Zoppellaro, giornalista

25 marzo 2020

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