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Le storie del Bene

di Milena Santerini

Milena Santerini al Teatro Franco Parenti

Milena Santerini al Teatro Franco Parenti

Pubblichiamo di seguito l'intervento di Milena Santerini all'ultimo incontro del ciclo "La crisi dell'Europa e i Giusti del nostro tempo", tenutosi al Teatro Franco Parenti di Milano il 18 maggio 2017.

Nella Carta delle responsabilità Gabriele Nissim scrive “ognuno di noi può fare la differenza”. Io però vorrei riflettere sull’indifferenza.
Che cosa fa di noi un Giusto o uno spettatore? L’inerzia dello spettatore è la condizione comune di tutti noi. Vorrei partire - per ragionare intorno all’essere spettatori, all’inerzia e all’indifferenza, che sono contagiose quanto l’impegno e la responsabilità - da un esempio. L’esempio in questione riguarda ciò che è avvenuto negli ultimi quindici anni nel Mediterraneo: nelle sue acque sono morte 30mila persone e solo il 60% di esse sono state identificate, hanno avuto un nome. Possiamo domandarci allora cosa provoca la nostra indifferenza di fronte non solo a questa tragedia, ma anche al fatto connesso di non riuscire a dare a queste persone un nome. 

Immaginate allora che accada un incidente aereo, o un terremoto, e che nessuno si prodighi per cercare i corpi delle vittime; immaginate coloro che aspettano notizie dei loro cari. Salvare i vivi e dare un nome ai morti non è solo un compito dei Giusti, ma della pietà umana, della misericordia, dello spirito religioso proprio di ogni religione; avere un nome è anche un diritto. Tutto ciò fa riferimento a quanto esprimeva Antigone: queste sono le leggi non scritte degli dei. Perché allora deroghiamo? Forse perché sono troppi, perché sono lontani o non come noi? I Giusti, a questi dilemmi, rispondono in prima persona, non sono indifferenti, anche quando gli altri sono lontani, anche quando l’estraneità può dipingere l’altro come un nemico. Se tutti avessimo visto quel peschereccio azzurro, senza nome, protagonista di uno dei più violenti naufragi del 2015 - sono morte 800 persone - avremmo visto un barcone pieno di effetti personali delle persone: documenti, pagelle scolastiche, indumenti, addirittura dei sacchettini con della terra del loro Paese di origine. Su quel barcone esistevano tre classi; la maggior parte dei morti apparteneva alla terza classe.

Chi siamo noi davanti a questo male? È quasi naturale ripensare a tutti quegli infamanti articoli che accusano chi salva di essere in collaborazione con i trafficanti. L’accusa è falsa, ma serve alle nostre coscienze per giustificare l’inerzia a non schierarci con chi salva; possiamo non prendere la parte delle vittime, perché anche loro partecipano in una certa misura al male. Mi sovviene allora un bellissimo passaggio tratto dal libro del sudafricano J.M Coetzee, premio Nobel nel 2003, Aspettando i Barbari, nel quale si legge di un impero assediato che teme le ondate di stranieri: “l’impero di giorno insegue i suoi nemici, di notte si nutre delle immagini del disastro”. Potremmo voler dire, allora, che la colpa è dei media e della spettacolarizzazione del dolore, che ci rende quasi abituati al dolore stesso. Ed è vero, soprattutto quando le immagini ci presentano delle masse anonime e, come Primo Levi insegnava, non siamo capaci di pietà per molti, al massimo per uno. Il mondo infatti si è mosso quando ha visto le immagini del piccolo Alan Kurdi sulla spiaggia; lì, la pietà umana è scattata, ma si è subito ritirata quando ha sentito le accuse e le calunnie contro i soccorritori.

Con gli occhi dei Giusti, della non indifferenza, della pietas, noi possiamo tentare una comprensione più larga e universale, ma dobbiamo essere contagiati. I Giusti ci contagiano. Siamo tutti responsabili nei confronti di qualcun altro, ma possiamo farlo solo quando ci immedesimiamo nell’altro, diventando così responsabili per il prossimo. Mettiamoci nei panni di una madre che, in un limbo angoscioso, attende notizie sulla vita del figlio.
Ecco la paura della responsabilità, la premura di trovare un alibi per non dover agire, non dover provare ammirazione per chi salva. Vorrei citare il caso del Memoriale della Shoah di Milano, che accoglie 40-50 rifugiati ogni sera, 4-5mila ogni anno, con una gestione che non è caduta in una memoria fine a se stessa. Indifferenza, la parola scritta a caratteri cubitali all’ingresso, voluta da Liliana Segre, mostra una continuità tra ciò che avveniva al Binario 21 e quello che accade oggi; l’accoglienza nel Memoriale spezza quella catena di continuità. 

Come si fa a creare empatia negli altri? A portare gli occhi della pietà su chi soffre? Innanzitutto, direi, c’è bisogno di una mediazione che ci accompagni nel dolore degli altri. Abbiamo bisogno di un racconto e di occhi diversi, che ci trasformino da spettatori a soccorritori. Il racconto coinvolge la nostra immaginazione, che ci porta a immedesimarci negli altri, nella storia, nei protagonisti. Se possediamo quindi una empatia originaria che trasforma noi nell’altro, il male allora da dove nasce? Nasce forse dalla concorrenza per le risorse? Non appena ci sentiamo in pericolo, quindi, l’empatia originale svanisce? Occorrono racconti, immaginazione, incontri, un'educazione morale diversa che non si sofferma su cosa è giusto o cosa è male. Non serve una giustizia che si basa unicamente sulla conoscenza delle regole, quanto piuttosto una giustizia che fa incontrare, che fa scoprire le somiglianze e ci mostra tutti originalmente umani. I Giusti allora, sono gli altri e ci fanno riscoprire negli altri

Il 6 marzo, la Giornata europea dei Giusti, deve diffondersi il più possibile, perché attraverso le storie di queste donne e uomini possiamo contagiarci col bene, imparare ad "agire nel bene" e ricordarci sempre che noi siamo l’altro.

Milena Santerini

Analisi di Milena Santerini, ordinario di Pedagogia all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

18 maggio 2017

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