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La memoria non è una cassaforte identitaria

di Gabriele Nissim

Anna Foa aveva ragione, quando su queste pagine ha lanciato un grido di allarme. La memoria della Shoah si è offuscata, ha perso la sua carica dirompente.
Quando è nata, aveva un carattere specifico ed universale. Specifico, perché aveva rotto tutti i tabù sull’incomprensione del fenomeno e aveva permesso di trasmettere al mondo la sua singolarità rispetto a tutti gli orrori del nazismo. In Francia, per esempio, Simone Veil aveva condotto una battaglia straordinaria perché fossero ricordati non solo i partigiani che erano stati internati per la loro lotta al nazismo, ma tutti gli ebrei che erano morti non come resistenti, ma in quanto ebrei, per la colpa di essere nati. Primo Levi aveva raccontato il meccanismo della zona grigia nei campi che i nazisti avevano creato con lo scopo di generare una concorrenza per la vita tra le vittime, al fine di rendere corresponsabili gli ebrei della loro fine. Aveva spiegato in modo molto chiaro i meccanismi di depistaggio morale della coscienza nelle menti dei nazisti, che avevano trovato il modo di giustificare e di nascondere le loro azioni. Come lo scrittore torinese, anche Zygmunt Bauman in Modernità e Olocausto, aveva spiegato (seppure in termini sociologici) il meccanismo politico che aveva reso possibile la distruzione degli ebrei. Nella Shoah non c’era nulla di incomprensibile, perché i nazisti erano riusciti a creare una macchina di annientamento raffinata che portava gli uomini a fare delle cose così orrende che quando ancora oggi ci si pone lo sguardo sembrano impossibili.
Lo storico israeliano Yehuda Bauer, come forse nessun altro, aveva messo in luce come quel male non fosse compiuto da mostri o demoni, ma da esseri umani. Era un non precedente nella storia dei genocidi, che tuttavia non riguardava solo gli ebrei, ma l’intera umanità, perché si sarebbe potuto ripetere per altri uomini.

Il discorso della specificità e della singolarità della Shoah aveva permesso che si aprisse in tutta Europa un percorso di purificazione morale, dove accanto alle responsabilità dei nazisti, fossero messe in luce tutte le possibili complicità nei diversi Paesi. Un percorso comunque non lineare: se la Germania ha elaborato in questi anni la colpa in modo originale, ci è voluto tempo perché in Francia ci si ricordasse delle responsabilità di Vichy, mentre nei Paesi dell’Est ci è voluta la fine del comunismo perché si aprisse un dibattito sul coinvolgimento delle élite politiche alleate ai nazisti e sui fenomeni di indifferenza nelle società. Ancora oggi in Polonia, in Ungheria, in Ucraina, nei Paesi baltici (e bisognerebbe aprire un capitolo sulla Russia), nonostante i passi in avanti, si cerca di attenuare le responsabilità.

La memoria della Shoah, come sottolinea Anna Foa, aveva un carattere universale perché da quella vicenda con il lavoro dell’ebreo Raphael Lemkin era nata la Convenzione per la prevenzione dei genocidi nelle Nazioni Unite. Erano sorti i tribunali internazionali, le proposte per la protezione delle popolazioni minacciate, le riflessioni sui diritti umani.

Il tema del mai più sembrava la grande questione su cui tutti erano chiamati a riflettere. Ricordare la Shoah significava affermare con forza che quanto era accaduto agli ebrei non avrebbe dovuto ripetersi per nessun essere umano. Quindi il grande messaggio morale che veniva da quella esperienza tragica era la necessità di impegnarsi a difendere, in ogni angolo del mondo, la dignità umana.

George Steiner, un grande intellettuale ebreo, nel corso di un dibattito importante a New York nel 1967 in polemica con Elie Wiesel, spiegò che chi raccontava la Shoah si dimostrava inadeguato se presentava quel male estremo come una narrazione esclusiva. Il suo ruolo autentico era quello di essere testimone di ogni crimine che presentava anche il minimo rapporto con la tragedia ebraica: “La nostra differenza è che proclamiamo che non c’è differenza tra gli esseri umani.”
Steiner spiegò che i sopravvissuti portavano delle cicatrici terribili, ma avevano un unico privilegio dopo Auschwitz. Potevano essere indelicati, irritanti e sovversivi ogniqualvolta apparisse sulla scena pubblica una politica nazionalista, cattiva e disumana. Dovevano essere sentinelle del male e rifiutare ogni slogan nazionalista che portasse a giustificare la politica del proprio Paese, quando prendeva una strada sbagliata. Affermare di essere ebrei non significava costruire un mondo a parte, ma gridare ad alta voce quando l’umanità veniva oltraggiata.

Oggi invece osserviamo come quella carica ideale sembri affievolirsi. Quella memoria ha assunto un carattere identitario che sembra ruotare soltanto attorno a due questioni, certo molto importanti, come la lotta all’antisemitismo e la difesa di Israele contro chi la vorrebbe distruggere, ma si è allontanata da una vocazione universale. E perché non domandarsi, come aveva del resto fatto Primo Levi durante la guerra del Libano, se la memoria della Shoah non si affievolisce quando una parte di Israele sceglie l’annessione dei territori palestinesi?

Troppo spesso osserviamo che molti ebrei e tanti memoriali sono preoccupati che venga messa in discussione la specificità della Shoah quando si fanno dei paragoni con altri genocidi e atrocità di massa.
Vorrebbero che l’Olocausto continuasse a venire raccontato come un evento unico che ha colpito soltanto gli ebrei.
Questa concezione, a lungo andare, anche se mossa dalle migliori intenzioni, può diventare una pericolosa trappola perché rischia di separare la questione ebraica dalla condizione umana. Tante volte mi è capitato di sentire nelle scuole dai ragazzi questa osservazione: perché parlate solo della Shoah e non degli altri crimini? Perché pensate solo agli ebrei e non agli altri uomini? È un discorso che a lungo andare può diventare terreno fertile per gli antisemiti, che in vari modi vogliono sempre sottolineare la differenza degli ebrei.

Oggi è necessario invertire rapidamente questa tendenza.
La memoria della Shoah vivrà nel tempo se sarà anello di congiunzione tra tutte le memorie dei genocidi
e sarà in grado di confrontarsi ogni volta con i germi del male che si presentano nel tempo presente. La sua lezione vive solo se crea scandalo e diventa una pietra di inciampo di fronte ai nuovi orrori, come aveva intuito George Steiner.

Per questa grande operazione culturale ci vogliono nuove idee e nuovi pensatori.
La crisi epocale innestata dal Coronavirus, come osserva giustamente Anna Foa, richiede che quella memoria faccia i conti con l’odio che circola nel mondo con i sovranisti, con coloro che hanno costruito la politica del disprezzo nei social e nel dibattito pubblico delle democrazie, con coloro che vedono nei migranti e nei musulmani soltanto dei nemici, con la sfida più grande che minaccia l’intero pianeta: i cambiamenti climatici.

Non ce ne accorgiamo ancora, ma il nuovo male estremo dopo la Shoah potrebbe essere, come scrive Jonathan Safran Foer (l’autore di Ogni cosa illuminata), la nostra indifferenza all’apocalisse che si potrebbe innestare con il riscaldamento globale e l’innalzamento dei mari. Anche in questi mesi si sono registrate le più alte temperature sulla Terra.

La memoria deve unire l’umanità per le nuove sfide. Se diventa una cassaforte identitaria perde la sua funzione.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

30 giugno 2020

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