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Perché Aleksej Naval'nyj è tornato in Russia?

di Anna Zafesova

La domanda “perché Aleksej Naval'nyj è tornato in Russia?”, a farsi arrestare, a morire in carcere, continua a venire fatta da molti, in Russia e all'estero, da chi lo seguiva da anni e da chi scopre il suo messaggio soltanto dopo la sua morte. La risposta è semplice: perché era un politico, e sapeva che il diritto a diventare un leader e un modello non si guadagna nei salotti degli intellettuali liberali europei, ma nelle piazze, nelle aule del tribunale, dietro le sbarre. Nelson Mandela e Vaclav Havel non sarebbero diventati i candidati naturali a guidare la transizione dei loro paesi alla democrazia se non fossero stati rinchiusi in carcere dai regimi autoritari che combattevano. Naval'nyj era diventato l'alternativa a Vladimir Putin non solo per i milioni di like che raccoglieva sui social, e le migliaia di russi che scendevano in piazza con lui, ma anche perché il Cremlino l'aveva ritenuto talmente pericoloso da averlo avvelenato, e la sua sopravvivenza quasi miracolosa – in realtà un insieme della tenacia dei suoi seguaci, della determinazione di sua moglie Yulia e dell'impegno della diplomazia internazionale, conditi con parecchia fortuna – l'aveva reso in qualche modo il prescelto, come nella parabola di Harry Potter che lo stesso dissidente citava spesso. Era stato il signore oscuro a scegliere chi temere di più, è stata la scelta di Putin di ucciderlo, per ben due volte, a confermare che proprio Naval'nyj aveva la missione di rovesciarlo.

Quanto aveva il diritto di investire tutto quel capitale di speranza in una scommessa fatale? La domanda tormenta i suoi sostenitori, che piangono in questi giorni la “fine della speranza”, e cercano di rassegnarsi a vivere “in un mondo in cui Harry Potter muore nel finale”, come ha scritto Natasha Zotova, giornalista della BBC e moglie di Evgeny Feldman, il fotografo che ha seguito quasi tutta la carriera politica di Naval'nyj, pagando questo lavoro con l'esilio. La disperazione – come di-sperazione, assenza di speranza nel suo significato più letterale – dell'opposizione russa è travolgente, e mostra una profonda sfiducia in se stessi: già il fatto che per milioni di persone la speranza era rappresentata da un uomo isolato in un carcere di massima sicurezza, e non viceversa, offre una misura della condizione devastata e devastante della protesta. L'azione politica, in quello che è diventata oggi la dittatura in guerra di Putin, è praticamente impossibile, chi vuole fare opposizione deve prepararsi al martirio, e la decisione di partecipare o tacere, dice Leonid Gozman, uno dei leader del Comitato contro la guerra dei liberali in esilio, “oggi è più morale che politica, perché la politica inizia laddove si può cambiare qualcosa”. 

Cambiare, nella repressione dei tribunali che condannano a dieci anni per un post e ordinano l'arresto per due garofani su un monumento alle vittime di Stalin, è quasi impossibile. Ma nessuno dei dissidenti russi riesce a nascondersi da una verità crudele: la dittatura non è stata calata dal cielo, è nata e cresciuta sotto i loro occhi, si è evoluta per un quarto di secolo nell'indifferenza e nel conformismo, nella caccia al benessere materiale e nella paura di perderlo. A uccidere Naval'nyj è stato Putin. Ma a permettergli di farlo sono stati quelli che “tutti capiscono tutto”, quelli che “non mi interesso di politica”, quelli che “tanto da noi non dipende nulla”, quelli che “tengo famiglia”, “devo pagare il mutuo” e “mica vado in piazza a rischiare l'arresto per quelli lì che tanto sono tutti uguali”. A ogni azione corrisponde una reazione, una legge che in politica vale anche per l'assenza di un'azione. A ogni passaggio della drammatica storia di Naval'nyj, e della tragica discesa della Russia nella dittatura, qualche migliaio in più in piazza, qualche punto percentuale in più alle elezioni, qualche sussulto di protesta più intenso avrebbe fatto la differenza, come aveva fatto la differenza la folla che nel 2013 aveva invaso il centro di Mosca un'ora dopo la prima condanna di Aleksej al carcere, costringendo il Cremlino a commutargli la sentenza in condizionale, il mattino dopo.

Una consapevolezza amara che rende ancora più difficile, per molti, accettare il sacrificio di Naval'nyj, soprattutto ora che da scommessa ambiziosa si è rivelato un passo fataleNaval'nyj lo sapeva, “sono un condannato a vita, o la mia, o di Putin”, scherzava. Sapeva che la politica, soprattutto negli autoritarismi, possiede anche una dimensione fisica, lascia marchi e cicatrici sulla pelle, è fatta di lacrime e sangue. A una condizione: che il prezzo pagato scuota, ispiri e spaventi gli altri. Aleksej Naval'nyj aveva deciso di consegnarsi a Putin in un calcolo molto razionale: contava che avrebbe provocato una protesta, interna e internazionale, che il regime non sarebbe riuscito a domare. Doveva mostrare l'esempio: “Io non ho paura, non dovete averne nemmeno voi”, ripete oggi il suo mantra la moglie Yulia, che gli succede come simbolo di un movimento decapitato. Il martirio però – come si sa da qualche migliaio di anni – è efficace se sveglia le coscienze. 

Un Giusto può salvare una nazione, se questa fa uno sforzo per salvarsi. Il silenzio assordante sulla invasione dell'Ucraina e la dittatura putiniana della maggioranza dei russi, inclusi molti liberali, ha consegnato la sorte della libertà della Russia del futuro in mano agli ucraini: visto da oggi, è più probabile che il regime del Cremlino cada sotto i colpi di una crisi al vertice provocata dall'esercito di Kyiv e dalle pressioni occidentali, che grazie a una rivolta della popolazione. Uno scenario – per ora lontano e faticoso da raggiungere – che lascerebbe i russi di nuovo vittime, e non padroni del loro destino, in quella rassegnazione a subire che ha segnato buona parte della loro storia. Il Giusto non è soltanto colui che riesce a cambiare il mondo, come Aleksej Naval'nyj era convinto di poter fare. Il Giusto è anche colui che con il suo urlo riscatta la maggioranza silenziosa. Il Giusto è colui che, anche da morto, presta il suo coraggio individuale a una comunità annichilita. 

La meravigliosa Russia del futuro sognata da Naval'nyj non potrà nascere senza assumersi le proprie responsabilità, ammettere i propri errori, imparare le lezioni e pagare le colpe. Ma oggi, se a qualunque latitudine si chiede a un passante il nome di un politico russo che non sia Putin, la risposta non sarà Lavrov, Shoigu, Volodin o Medvedev o un altro dei cortigiani del Cremlino. La risposta sarà “Naval'nyj. E a un processo al regime russo, come quello che dovrebbe concludere la sua caduta, le attenuanti di una società che dovrà espiare la colpa della guerra con l'Ucraina si chiameranno Naval'nyj, Kara-Murza, Yashin, Skochilenko, migliaia di altri nomi, troppo pochi per l'assoluzione, si spera sufficienti per ripartire dalle ceneri dell'impero.

Anna Zafesova

Analisi di Anna Zafesova, giornalista, analista e USSR watcher

20 febbraio 2024

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