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Le diverse tappe della memoria

di Anna Foa

La Peste di Azoth di Nicolas Poussin

La Peste di Azoth di Nicolas Poussin

Pubblichiamo di seguito l'intervento della storica Anna Foa al quarto Incontro Internazionale di GariwoNetwork "Conoscere il mondo, ripensare la memoria". 

Quale memoria oggi? E quale responsabilità ha oggi la memoria?

La memoria ha una storia, gli storici lo hanno scoperto negli ultimi decenni storicizzando e ancorando ai bisogni del tempo e della politica, cioè in sostanza al percorso della storia, le diverse forme che ha assunto nel tempo. 

Prendiamo la questione della cosiddetta unicità della Shoah, o potremmo meglio dire, con la Carta della memoriasingolarità. L’enfasi sull’unicità si afferma fra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo, insieme al diffondersi ovunque, tranne che nei Paesi anglosassoni, del termine Shoah, il quale si riferisce solo al genocidio degli ebrei. Esclusi dal termine Shoah e dalla sua speciale unicità, saranno anche i rom e i sinti, finiti al gas accanto alle baracche dove stava Piero Terracina, uno dei sopravvissuti italiani, che ci ha raccontato il loro sterminio. Siamo in un contesto particolare, in cui la costruzione memoriale prende forza e spazio sia culturale che politico, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti e in Israele. Qui, fin dopo il processo Eichmann - in cui la commistione fatta nei due decenni precedenti tra deportati politici e razziali entra in crisi, e in cui la distruzione degli ebrei d’Europa si afferma, con difficoltà aggiungerei, come l’evento cardinale per l’Europa del Novecento -, ha origine e si diparte tutto ciò che è successo dopo in Europa.

Inizialmente, si tratta di un riconoscimento, quello della singolarità di uno sterminio come quello ideato dai nazisti per gli ebrei, in cui nessun ebreo al mondo deve sopravvivere – solo alcune loro memorie nel Museo della razza estinta. Uno sterminio che ha le caratteristiche della modernità, i treni, le camere a gas, la catena di montaggio della morte; non quelle del genocidio armeno, lontano dalla modernità, e ancor meno quelle del genocidio del Ruanda, realizzato col machete. Si identifica quindi l’oggetto, munito di sue caratteristiche specifiche, che in quella forma non ha precedenti

Poi, man mano che la costruzione memoriale si innalza ed erige barriere intorno a sé, per meglio identificarsi, diventa criterio di differenziazione assoluto, dogma. Per farlo, deve guardare alla Shoah allontanandosi dalla dimensione storica, che è per definizione il regno della comparazione, per assumere una dimensione prevalentemente ideale, religiosa. In questo quadro, pensiamo a Fackenheim e Wiesel, che nel 1967 aprono la strada a questa interpretazione. Pensiamo, soprattutto, al percorso della costruzione memoriale, sempre più retorica e autoreferenziale, sempre più avulsa dalla storia; alle accuse di appiattire la Shoah che vengono rivolte a chiunque si azzardi a confrontare la Shoah con gli altri genocidi del secolo dei genocidi. Come se gli ebrei stessi, chiusi nei ghetti nazisti, non avessero assunto il genocidio armeno come prefigurazione del loro destino. Come se nel 1944 Lemkin non avesse coniato la parola stessa “genocidio” pensando allo sterminio degli ebrei europei ancora in corso, ma anche a quello degli armeni, dandole un valore universale

L’unicità trae le sue origini anche dalla nuova concezione tutta positiva della vittima, in gran parte figlia della riflessione di Wiesel. Ne deriva, in molti casi, una graduatoria del grado nello sterminio, quella che è stata definita da uno storico come concorrenza delle vittime. E l’unicità diventa un mito a cui tutti, ebrei e non ebrei, si inchinano, a cui non ci si può sottrarre se non si vuole rischiare di passare per antisemita.

La costruzione memoriale, con le sue trasformazioni nel tempo, ha un rapporto stretto con due questioni fondamentali: la prima, importante soprattutto per gli ebrei, è il progetto che si ha, il modo in cui si vede il futuro del mondo, il rapporto tra la propria coscienza identitaria, chiusa o aperta, e il resto del mondo. La seconda, particolarmente attuale per tutti in questo momento, è il rapporto tra vero e falso, l’identificazione del vero, la demolizione del falso, il suo riconoscimento in quanto tale. Non è un caso che il principale attacco che è stato mosso alla Shoah fin dalla fine della guerra, a partire da Rassinier, sia quello del negazionismo; e che il leitmotiv dei nazisti fosse quello che nessuno, se anche avessero perso la guerra, avrebbe creduto veri gli eventi della Shoah. Era anche il sogno terribile di Primo Levi e dei sopravvissuti, il fatto che nessuno avrebbe creduto a quello che avrebbero raccontato, anche se si fossero salvati. Per questo, nei ghetti si nascondevano sottoterra i diari e le prove di quello che era successo, per testimoniare la verità. Questa è la molla che ha spinto e spinge ancora i sopravvissuti ad andare scuola per scuola a raccontare, con un carico di dolore terribile: testimoniare il vero, la verità dei fatti accaduti, confutare e distruggere le menzogne. Ci sono così le memorie, gli scritti - soggettivi come tutto ciò che risente della percezione di chi scrive, di chi racconta -, ma ci sono anche le prove, la documentazione - queste terribilmente oggettive -, negli archivi del Reich, in quelli dei Paesi occupati, nelle macerie delle camere a gas che gli archeologi dei campi scoprono e rivelano.

Congiunta alla storia, la memoria ci aiuta a distinguere il vero dal falso. E le conseguenze di ciò sono profonde: vuol dire riconoscere le vittime del genocidio armeno come vittime di un genocidio, non vittime marginali della guerra. Significa identificare le camere a gas di Birkenau, di Treblinka e degli altri campi come luoghi in cui si uccidevano uomini donne e bambini e non i pidocchi; riconoscere il genocidio del Ruanda, Srebrenica...

Le fake news non sono un fatto di oggi. Sul tema della Shoah e della costruzione della sua memoria, il negazionismo ha demolito l’idea stessa che sia possibile arrivare a una qualsiasi verità, insieme al valore delle prove e delle testimonianze. Nella notte in cui tutto è falso, tutto è possibile, nessuno sarà responsabile di nulla, tutto potrà essere negato.

La memoria, sempre strettamente collegata alla storia, ci aiuta anche a fornirci degli strumenti capaci di allargare il nostro sguardo non solo a tutto ciò che ricordiamo ma a tutto ciò che ci aspettiamo dal futuro: se vogliamo un mondo in cui non ci siano più genocidi, dobbiamo innanzitutto saperli riconoscere. Il modello con cui ci confrontiamo è quello della Shoah, ma i genocidi non sono finiti nel 1945, tutta la seconda metà del secolo e questo primo ventennio del nuovo secolo ne sono costellati. Dopo l’89, col crollo del comunismo e dei regimi totalitari all’Est, la memoria della Shoah, divenuta ormai fondante dell’identità della costruzione dell’Europa, non è riuscita ad aprirsi che in minima parte alla memoria del Gulag. Non è riuscita a far spazio alla memoria del totalitarismo comunista. In parte, perché in quel caso è mancata una costruzione memoriale simile a quella dell’Occidente, pensiamo alle difficoltà e alle vere e proprie persecuzioni che ha subito l’associazione Memorial in Russia. E in parte perché il nesso - che pure all’epoca era stato reso da figure del livello di Grossmann, Margarete Buber Neumann, Koestler, per non dire che tre nomi - era offuscato dai residui ideologici della guerra fredda; anche proprio per il rifiuto del confronto.

La comparazione degli eventi storici e delle memorie è indispensabile. Questo vuole anche dire non fare di tutt’erba un fascio, ma utilizzare il confronto come uno strumento essenziale di conoscenza. Non scambiare ogni violenza con un genocidio, ma riconoscere il genocidio e confrontare fenomeni fra loro diversi, certo, ma confrontabili. Senza di ciò, come potremmo, ad esempio, capire come la Shoah ha modificato il diritto internazionale, e quali sono stati i rapporti tra la consapevolezza e la memoria della Shoah e il tentativo di punire i crimini che con la Shoah, con Norimberga, sono stati definiti tali? Se non si riconosce che da là il diritto è cambiato, da là sono nati tribunali internazionali che si sono dati il compito di impedire e punire altri genocidi, come si può parlare di memoria della Shoah? 

Chi non lo fa, rifiuta l’idea stessa che attraverso la memoria e la conoscenza storica si possano creare gli strumenti per rendere migliore il mondo in cui viviamo. Renderci responsabili del mondo, non solo degli ebrei. Qualcosa che possiamo diventare solo se sapremo distinguere il vero dal falso, se sapremo riconoscere i fatti del passato e confrontarli con quelli del presente, che dipendono da noi, dalle nostre capacità, dalle nostre responsabilità appunto, come quelli del passato sono stati opera degli esseri umani di allora e del loro agire.

Un breve cenno alla situazione in cui viviamo. Pensavo, all’inizio della pandemia, che essa, mettendoci di fronte ad un evento di portata grandissima, avrebbe modificato la nostra memoria, ci avrebbe, forse chissà, costretti ad altre priorità; che il valore della memoria della Shoah come pilastro su cui si era ricostruito il mondo dopo Auschwitz potesse essere diminuito da questa nuova catastrofe e che quindi avremmo dovuto rinnovare i nostri strumenti di analisi, dare altri sensi alla memoria della Shoah. Non è così, o almeno non in questi termini. 

Negli ultimi mesi, infatti, un fenomeno strano e inatteso si è aggiunto alla paura della pandemia, della povertà, della perdita del lavoro: la negazione di ciò che è. La violenza con cui le tesi negazioniste del COVID-19, mantengo questo termine, si esprimono, il fatto che facciano parte di una visione complottista del mondo e della storia, ci riportano invero, più che alla vera e propria negazione della Shoah, ai suoi prodromi, all’antisemitismo dei Protocolli dei Savi di Sion e al modo in cui Julius Evola, il curatore italiano della loro pubblicazione nel 1937, conciliava il fatto assodato che fossero un falso con il fatto che continuava a sostenerne la verità. Erano, infatti, a suo avviso, plausibili con la visione del mondo che proponeva, naturalmente, di un immenso complotto manovrato dall’ebraismo mondiale. Anche la negazione – se proprio non vogliamo chiamarlo negazionismo – del COVID-19 porta nella stessa direzione: l’atteggiamento è lo stesso, vero e falso sono uguali, il vero non esiste, il falso è solo plausibilità. Là dove il vero si perde nel falso, là è il mito. Il mito antisemita, il mito dei poteri occulti, l’idea che il vero sia manovrato e che dietro ciò che sembra vero vi sia un vero più vero anche se totalmente indimostrabile, anzi soprattutto perché indimostrabile. 

E il mito che il COVID-19 non esista sta arrivando velocemente a toccare gli ebrei. In primo luogo, attraverso Soros. Poi attraverso Bill Gates, che anche se non ebreo è certamente simile agli ebrei (come la letteratura e l’arte degenerata sotto il nazismo). E poi attraverso il demonio, che il direttore dell’ascoltatissima in Italia Radio Maria, ci prospetta all’origine del complotto per asservire il mondo, come motore della nuova dittatura sanitaria. Sono i Protocolli, con in più il virus. Faccio tanto spazio al negazionismo del COVID, che assume ai giorni nostri crescente rilievo, perché sono convinta che i fenomeni, negazionismo della Shoah e negazionismo del virus, siano affini, e che l’idea del complotto generi situazioni simili e ugualmente pericolose. E anche qui il compito della memoria, di una memoria sempre più allargata a comprendere le radici dei genocidi, il modo in cui si saldano all’idea di un complotto dei poteri occulti, e anche la violenza che generano, è nostro compito fondamentale. 

All’epoca della peste Nera, il mondo ebraico è stato in molta sua parte distrutto da fenomeni molto simili a quelli che stiamo vedendo nascere nella nostra quotidianità: la ricerca di capri espiatori, l’idea di un’origine manufatta del male, il divampare di credenze irrazionali. Anche il diavolo riappare, e se ancora non si ha il coraggio di dirlo apertamente e ci si nasconde dietro l’ombra di Soros, purtroppo condivisa anche da una parte del mondo ebraico che ne sottovaluta la carica antisemita, sta riapparendo anche l’ebreo. Fantasmi irrazionali che hanno attraversato la storia, fino a contribuire in tempi più vicini a noi ad alimentare l’ideologia distruttrice della Shoah, si riaffacciano. Per ora, ce ne prendiamo gioco come di sopravvivenze. Speriamo che restino tali. Altrimenti, chi ci ridarà, in questo clima in cui prevalgono miti e paure sempre più irrazionali, l’uso della ragione insegnatoci dall’Illuminismo?

La memoria deve servire a riconoscere questi fenomeni. La responsabilità che ne nasce è quella di impedire che portino nuovamente al disastro. Pensavo, come dicevo, nella prima fase della pandemia, che essa avrebbe reso meno centrale la memoria della Shoah. Invece, riportando a galla tutto il ciarpame della storia passata, sembra rimetterla in discussione e di conseguenza renderla ancora più necessaria. Purché guardi al futuro, oltre che al passato, al mondo e non a barricare le identità e i nazionalismi, a favorire la responsabilità e non a rafforzare i confini fra gli esseri umani. Perché se così fosse, diventerebbe anch’essa uno strumento verso l’abisso.

Anna Foa

Analisi di Anna Foa, storica

25 novembre 2020

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