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L’attentato terroristico di Mosca e la disumanizzazione del nemico in guerra

di Andrea Braschayko

Lo scorso 22 marzo potrebbe aver segnato l’ennesimo punto di non ritorno di qualsiasi futuro dialogo fra ucraini e russi, persino a guerra finita. L'attentato al teatro Crocus City Hall di Mosca, in cui hanno perso la vita oltre 140 persone e più di 300 sono rimaste ferite, ha accentuato ulteriormente le tensioni tra i civili dei due paesi, già frammentate da anni di conflitto e propaganda. Tensioni in modo drammatico irreversibili in seguito ad ogni nuova azione distruttiva dell’esercito e governo russo dopo l’invasione del 24 febbraio 2022.

Non è la prima volta che il focus si sposta, per un breve lasso di tempo, dalle sofferenze dei civili ucraini a quelle dei civili russi: era già successo in seguito ad alcuni attacchi ucraini a Belgorod – risposta dei massicci bombardamenti russi del dicembre 2023 – e altre azioni di sabotaggio lungo il ponte di Crimea. Quello del Crocus City Hall rappresenta però l’episodio più rilevante e tragico dell’invasione russa sul proprio territorio, sebbene non sia collegata direttamente alla guerra in Ucraina, come la propaganda del Cremlino sta provando a far credere nelle ultime settimane insistendo sulla cosiddetta ‘pista ucraina’ dietro la matrice fondamentalista islamica.

Molti ucraini non hanno manifestato, per ragioni tutto sommato ovvie ma ugualmente tristi, alcuna solidarietà per l'attacco terroristico. Ancor di più, alcuni sembrano aver reagito con una sorta di soddisfazione per la rivalsa nei confronti della popolazione russa. Una delle frasi più utilizzate nei social media e nelle conversazioni informali fra ucraini per commentare l’accaduto è “perché voi russi vi bombardate da soli?” – un evidente richiamo alla retorica del Cremlino adottata per dipingere il conflitto del Donbas del 2014 come puramente civile, e utilizzato in modo vendicativo da molti ucraini ad ogni episodio di distruzione sul suolo russo. Quella dell’operazione false flag condotta dai servizi segreti russi, che avrebbero provocato o per lo meno non ostacolato l’attentato, è pure la versione ufficiale dei servizi d’intelligence ucraini, condivisa da buona parte dei media e della popolazione. Una teoria, così come quella del Cremlino sulla pista ucraina, che peraltro non ha ad ora alcun fondamento fattuale, se non generici richiami alla strategia del terrore russa alla vigilia della seconda guerra cecena.

In Russia, al contrario, sta emergendo una visione sempre più diffusa tra il segmento pro-guerra più estremista, che dipinge gli ucraini come terroristi, richiamando alla mente le narrazioni nei confronti dei ceceni durante gli anni '90. Con le dovute e solite precauzioni dei sondaggi condotti in guerra, un recente campione di circa 650 russi rivelerebbe come più o meno la metà tra di essi ritenga l’Ucraina responsabile dell’attentato terroristico, secondo i dati raccolti da OpenMinds, un think tank internazionale la cui missione è “combattere l'impatto della propaganda e coltivare l'apertura mentale e la de-escalation dei conflitti geopolitici”. Non esistono invece dati in merito alla valutazione emotiva degli ucraini dell’attentato di Mosca del 22 marzo, ma è facile prevedere che la tristezza, la compassione e l’empatia si posizionerebbero agli ultimi posti, dietro all’indifferenza, alla soddisfazione della vendetta e al calcolo utilitaristico per cui una maggiore devastazione e caos in Russia porteranno a un minore impatto dei crimini russi in Ucraina.

Già la scorsa estate, lo storico e opinionista dell’Ukrainska Pravda Michaylo Dubinyavs’kyi scriveva come “prima o poi sui nostri social media si aprirà un dibattito sull'opportunità di gioire o meno per la morte di giovani bambini russi. Gli umanisti insisteranno sul fatto che i bambini non sono colpevoli di crimini commessi dagli adulti e che gongolare per la morte di un bambino è una barbarie. I disumanizzatori sosterranno che il bambino del nemico è il nemico del futuro. Che prima spariscono, meglio sarà per centinaia di migliaia di altri bambini, ucraini. E che a causa di fattori genetici, storici e culturali, nessun bambino russo può crescere come una brava persona”.

Il futuro distopico descritto da Dubinyavs’kyi è parzialmente già realtà, e nessuna giustificazione logica può attenuarne la tragicità umana intrinseca. Se nei primi mesi dell’invasione ucraini e russi antiguerra ancora cercavano forme di cooperazione e sostegno reciproco, i massacri di Irpin’ e Bucha – da pochi giorni giunti al loro secondo anniversario – e l’assedio di Mariupol’ hanno definitivamente spinto gli ucraini lontano pure dai cosiddetti ‘russi buoni’. Quest’ultima una definizione sarcastica coniata dagli ucraini per sottolineare la presunta ipocrisia di molti oppositori russi, e diretta persino verso il premio Nobel e capo redattore del quotidiano indipendente russo Novaja Gazeta Dmitri Muratov.

Un articolo del Financial Times ha raccontato la storia di Anna, una quarantunenne russa presente al Crocus City Hall durante l’attentato, e fuggita miracolosamente insieme al figlio sulla sedia a rotelle. Sebbene la giornalista Anastasia Stognei racconti che “Anna non segue la tv statale russa”, quest'ultima sembra aver interiorizzato la propaganda del Cremlino che vede l’Ucraina come responsabile della strage. “Gli ucraini avevano bisogno di qualcosa che distogliesse l'attenzione dal fronte. E la morte dei russi, anche di quelli non direttamente coinvolti nella guerra, compresi i bambini, è sempre stata motivo di grande gioia per i patrioti ucraini” sostiene Anna, ed è difficile darle torto anche solo guardando la polarizzazione dei commenti sui social media e del linguaggio. Così come è difficile dare torto a quegli ucraini che, sollevati di vedere, per una volta, la tragedia non consumarsi sul proprio suolo, rivendicano indirettamente di poter godere delle più basse così come delle più naturali emozioni umane: la sete di vendetta e la curiosità nel vedere il proprio nemico alle prese con qualcosa di tragico. La comprensione di entrambe queste dimensioni, e l’incompatibilità di unirle senza uno sforzo reciproco, potrebbe aiutare nella de-escalation di molti conflitti globali. Ma assume ancora più rilevanza nel caso ucraino.

Sebbene con una generazione in meno, la guerra fra Ucraina e Russia e la guerra jugoslava sono accomunate dalla convivenza dei popoli coinvolti in un’unica entità statale, contribuendo al mescolamento dei popoli. Nel 1995 il giovane scrittore bosniaco Miljenko Jergovic dava alla luce il suo diario pubblicato con il nome Le Marlboro di Sarajevo, tutt’oggi uno dei romanzi più rappresentativi della guerra balcanica. “La Verità suone­rà offensiva, se mai qualcuno vorrà dirla, per i serbi, per i croati e per i musulmani. I primi hanno istigato e messo in atto il crimine, gli altri, nella loro di­sgrazia, hanno creduto di esse­re nel giusto e di dover pensare e agire come i primi. Ciò che accadrà in futuro sa­rà solo un riflesso di questa ca­tarsi del male” scriveva Jergovic raccogliendo la lettera di un amico sopravvissuto all’assedio di Sarajevo.

Secondo un sondaggio del 2011, quasi la metà degli ucraini aveva parenti in Russia e prima della guerra, e anche dopo di essa, erano quasi 3 milioni i cittadini ucraini residenti nella Federazione Russa. Per quanto incredibile possa sembrare, un reportage del Kyiv Post dello scorso settembre ha raccolto le voci di chi ancora oggi viaggia dall’Ucraina alla Russia, nonostante la guerra in corso. Non si tratta di cittadini filorussi delle aree meridionali e orientali, ma di persone fortemente legate all’Ucraina, spesso con parenti stretti arruolati nelle Forze armate di Kyiv, e che partono da diversi capoluoghi dell’Ucraina – sia nelle zone occupate che sotto il controllo governativo. Sono, ovviamente, soprattutto donne. Alcune viaggiano per lavoro, altre vanno a trovare dei parenti – poiché il tragitto opposto, dalla Russia all’Ucraina, è molto più complesso visto che il governo ucraino ha adottato diverse misure per impedire l’ingresso di sabotatori e spie, di fatto bloccando l’emissione di visti ai cittadini russi. 

Le loro testimonianze sembrano fornire un quadro completamente diverso dai commenti dell’edizione giornaliera dei telegiornali nei bar di Leopoli e San Pietroburgo, oppure dai commenti della sezione notizie di Facebook o nei gruppi Telegram. Una volta superati i questionari propagandistici al confine russo, in cui viene chiesto cosa pensino della cosiddetta “operazione militare speciale” o del “governo di Kyiv”, molte persone notano come “molti russi empatizzino nei confronti degli ucraini, e alcuni donino persino all’esercito ucraino […] sebbene questo non cancelli la responsabilità collettiva della società nel suo complesso per ciò che sta accadendo”.

I russi che provano simpatia nei confronti degli ucraini sono costretti a nasconderlo al proprio governo. Gli ucraini che riescono a entrare in contatto con i russi preferiscono ometterlo alle autorità di Kyiv, in un clima di sospetto e caccia al traditore crescente. In questa penombra è però possibile l’incontro in cui le gabbie dell’odio, più evidenti a distanza, possono sciogliersi. Senza cancellare i traumi di questa guerra, della distruzione quotidiana, su cui sono soprattutto i soldati, uomini e donne, i loro figli, e i civili innocenti colpiti dalle bombe russe, a portarsi il peso sopra le spalle. Un dialogo, seppur fugace, che restituisce una prospettiva lontana di un futuro diverso, in cui la convivenza non solo dovrà essere possibile, ma sarà purtroppo necessaria.

Andrea Braschayko

Analisi di Andrea Braschayko, giornalista freelance

2 aprile 2024

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