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Il mio sogno a Marsiglia: grazie a Evelyne Sitruk ricordiamo i Giusti universali

di Gabriele Nissim

A Marsiglia si è realizzato un sogno che con tante difficoltà ho cercato di promuovere in Italia e in altri paesi del mondo: dare una dimensione universale alla memoria della Shoah e fare delle comunità ebraiche le promotrici dei Giardini dei Giusti universali.

Ho sempre ritenuto che la memoria non dovesse essere solo una prerogativa degli ebrei, ma diventare, come aveva immaginato Primo Levi, uno strumento per ragionare sulla condizione umana e sulle possibilità di educare la società alla prevenzione non solo dei genocidi, ma anche di ogni forma di persecuzione verso tutti gli esseri umani. Il mai più era un concetto che non doveva riguardare solo gli ebrei, ma diventare un imperativo morale in ogni paese del mondo.
La valorizzazione dei Giusti aveva questo significato: promuovere nei Giardini l’esempio morale di chi si pone ovunque nel mondo come argine al male. Ho sempre ritenuto che se la memoria non ha questa dimensione rischia di trasformarsi in una grande trappola. Ghettizzare gli ebrei e fare della Shoah una memoria a parte, che non tocca l’umanità, con il tempo rischia di venire dimenticata. Purtroppo, ho sempre trovato grandi ostacoli in una parte del mondo ebraico, che ha considerato l’universalizzazione un pericolo che avrebbe portato alla banalizzazione e allo svuotamento della specificità della Shoah, come se il ricordo del male estremo venisse cannibalizzato dalla memoria di altri genocidi e non, invece, diventasse una forma di orientamento più alto per promuovere nuovi comportamenti nella società.

A Marsiglia ho incontrato una donna eccezionale, Evelyne Sitruk - figlia del gran rabbino di Francia Joseph Sitruk, scomparso nel 2016 - che con grande determinazione ha voluto che il Centro Edmond Fleg, l’anima culturale della seconda comunità degli ebrei francesi (quasi 80 mila, un numero ben superiore dell’insieme degli ebrei italiani), diventasse promotore di un importante Giardino dei Giusti. “Ho sposato questa idea, mi racconta, perché non voglio che gli ebrei vivano la loro condizione come un ghetto. Io sono religiosa, ma credo che i nostri valori debbano essere universali. Se noi ebrei ci separiamo questa è la nostra fine, come vorrebbero gli antisemiti. Noi dobbiamo ricordare non solo i Giusti per gli ebrei, ma tutti coloro che in ogni angolo del mondo salvano l’umanità”. E così Evelyne, il 17 maggio del 2022, ha organizzato la prima cerimonia “universale” per i Giusti in Francia per ricordare l’ammiraglio francese Louis Dartige du Fournet, che andò in soccorso degli armeni che resistevano nel Mussa Dagh, insieme a Félicité Niyitegeka, una suora laica che preferì la morte piuttosto che consegnare 43 tutsi ai genocidari, mettendo così queste storie sullo stesso piano morale di quella del giornalista americano Varian Mackey Fry, che in Francia durante l’occupazione francese procurò documenti falsi che permisero la salvezza di 4000 ebrei perseguitati.

Sitruk ha poi coinvolto la municipalità di Marsiglia e la regione per ottenere una grande spazio pubblico per la costruzione di un Giardino dei Giusti che coinvolgesse l’intera città. I suoi sforzi hanno avuto successo perché nel 2025 il grande Parco del ventiseiesimo centenario, ora in via di ristrutturazione, sarà la sede del Giardino dei Giusti. Qualche problema lo ha incontrato con Yad Vashem France che, seguendo le direttive del memoriale di Gerusalemme, ha messo in dubbio che la categoria dei Giusti potesse allargarsi ad altri crimini contro l’umanità. Evelyne nonostante le pressioni ricevute non si è tirata indietro e ha trovato uno stratagemma. “Noi pianteremo alberi per tutti i Giusti, continueremo a definirli così. Per non creare problemi il nostro Giardino dei Giusti si chiamerà Giardino del Bene universale. E chi non capisce capirà, prima o poi”.

Evelyne Sitruk ha avuto ragione, lo dimostra il fatto che la settimana scorsa ha organizzato una nuova cerimonia alla presenza questa volta delle maggiori autorità della comunità francese, dal presidente del Crif Fabienne Bendayan, al presidente del Fondo sociale ebraico Lionel Stora, al presidente del Concistoro Michel Tenouidij Cohen. “Ho deciso di farlo anche se mi trovavo in una situazione difficile, per la crisi in Medio Oriente e l’ondata di antisemitismo che attraversa la Francia che porta le comunità a chiudersi in se stesse. A maggiore ragione, contro questa tendenza, pensavo fosse necessario ribadire un discorso universale”. Così, all’apertura dell’evento, Sitruk ha spiegato a tutti che si sentiva in piena sintonia con la missione di Gariwo e mi ha dato la possibilità di raccontare non solo il significato dei Giusti universali al di là di ogni confine ma anche il ruolo educativo della rete internazionale dei Giardini, che unendo esperienze diverse richiamano alla responsabilità globale nei confronti di ogni discriminazione.

Evelyne ha voluto fortemente ricordare alcune figure che segnano il nostro tempo.
Si è parlato in modo nuovo del 7 ottobre e della guerra in Medio Oriente: fino ad ora nessuna comunità ebraica aveva dato valore agli arabi israeliani che rischiano la loro vita per la pace e per il dialogo. Così, durante la cerimonia al Centro Fleg, è stato messo a dimora un albero per Youssef Ziadna, il beduino che con il suo pulmino ha salvato trenta ragazzi che partecipavano al grande rave. 
Evelyne avrebbe voluto portare a Marsiglia l’eroico autista per farlo conoscere a tutti.
La guerra in Medio Oriente ha però dei meccanismi che a noi sfuggono. Sono tanti gli arabi che condannano Hamas e vanno controcorrente ma poi hanno paura, per la loro incolumità, di esporsi pubblicamente. Chi dialoga o persino compie azioni di umanità viene bollato come traditore. Come scrisse in uno dei suoi ultimi libri Amos Oz, per arrivare alla pace ci vuole il sacrificio dei traditori dei due popoli. Non tutti però hanno il coraggio di farlo sapere. 

Evelyne non si è arresa. Vuole che la piantumazione dell’albero per Ziadna diventi un grande segno di pace e che la notizia del suo riconoscimento si diffonda nel mondo. “Penso che in cuor suo Ziadna sia molto felice per questo riconoscimento, anche se non sono sicura che ora appenderà alla sua parete la foto del suo albero, ma un giorno senz’altro lo farà”.

Evelyne ha ricordato senza distinzioni tutte le vittime della guerra, a differenza di quanto è successo nel tempio di via Guastalla a Milano in occasione dell’anniversario della strage del 7 ottobre, dove nessuno ha detto una parola sui palestinesi.

Mi racconta Evelyne: “l’assessora alla cultura di Marsiglia prima della cerimonia mi ha detto che avrebbe parlato di Gaza. Io le ho risposto di non preoccuparsi perché lo avrei fatto io stessa citando un poeta palestinese”.
E poi mi spiega che non si tratta solo di interrogarsi su tutte le responsabilità dal primo all’ultimo giorno ma di trasmettere un messaggio dirompente, che dovrebbe valere per tutti i protagonisti della crisi, e che fino ad oggi non è stato accolto da nessun pacifista. Che senso ha che migliaia di persone continuino a morire in un conflitto che non finisce mai, quando la creazione di due stati amici e pacifici a fianco l’uno dell’altro potrebbe essere la soluzione? È questo l’interrogativo che si pone Evelyne che in Israele ha un fratello impegnato per la pace. “Mio fratello Michel Warschawski la pensa come me. Era andato in Israele nel 1966 con un afflato religioso. Poi, dopo la guerra dei 6 giorni, ha visto l’occupazione dei territori e ha ritenuto che, come ebreo, bisognava rifiutarsi di dominare la terra di un altro popolo ed è andato due volte in prigione perché come soldato si è rifiutato di prestare servizio militare in Cisgiordania”.

E poi Evelyne ha voluto ricordare con un albero Cochan Elkayam- Levy, la fondatrice israeliana della “commissione civile sui crimini di Hamas contro le donne e i bambini”. Non solo non è stato facile fare parlare le donne che hanno subito le più terribili violenze sessuali, ma ancora oggi i pregiudizi politici impediscono che ci sia un riconoscimento pubblico da parte delle femministe e dei fautori della causa palestinese di quanto è successo alle donne violentate e rapite il 7 ottobre.

Come può esistere una prospettiva di pace se si censurano nell’opinione pubblica queste violenze?

Mi è capitato di recente di sentire a Porta a Porta un rappresentante dei collettivi studenteschi sostenere che quella violenza era solo un atto di ribellione nel contesto della guerra e che bisognava esclusivamente concentrarsi sui temi dell’occupazione dei territori. A quello studente, come ai tanti che manifestano in Italia per la causa palestinese, non è venuto in mente che non può esistere nessun anelito alla liberazione che porta alla barbarie e agli stupri. Per questo Cochav Elkayam- Levy è stata la prima a comprendere che la documentazione più scientifica e veritiera per quello che era successo dovesse venire realizzata il più velocemente possibile con un grande lavoro psicologico, prima che i ricordi sbiadissero.

Non solo era necessario rendere pubbliche le violenze subite dalle donne per affermare il valore della dignità femminile ferita e umiliata, ma anche farne una lezione in tutto il contesto del conflitto Medio Orientale. Fare conoscere questo dolore non era importante solo per le vittime israeliane, ma anche per i palestinesi, e per creare le condizioni di un esame di coscienza su quei crimini.
La consapevolezza di questa barbarie, come di tutte le altre, è fondamentale per porre un argine alla disumanizzazione del conflitto. Chi in Israele vuole ricordare e chiede la liberazione degli ostaggi, in polemica contro il governo, afferma il valore della sacralità della vita e della dignità umana che va salvaguardato ad ogni costo contro ogni ragione di stato. L’empatia per chi ha subito violenza il 7 ottobre, come ha scritto Haaretz, non porta necessariamente al desiderio di vendetta, ma fa sentire compassione anche per le vittime del campo avverso. Se ci si dimostra invece indifferenti alla sorte degli ostaggi, sostenendo la priorità della vittoria militare su Hamas rispetto alla loro liberazione, si creano le condizioni di una disumanizzazione collettiva nei confronti di ogni dolore, compreso quello delle vittime di Gaza.

A Marsiglia come a Milano è stata onorata Narges Mohammadi, la militante iraniana premio Nobel per la pace tuttora in prigione. A rappresentarla Evelyne ha invitato un collettivo di donne franco iraniane “Femme Azadi” impegnate in una battaglia di sostegno al movimento “donna, vita, libertà”.
La presidente, Mona Jafarian, ha ricordato uno degli errori più clamorosi che sono fatti in Europa sostenendo che troppo spesso si esprime ammirazione per le donne che in Iran lottano contro il regime, ma non si comprende il legame che esiste tra la repressione della libertà femminile, quello che Narges Mohammadi definisce apartheid femminile, e la propaganda antisionista degli ayatollah. La mobilitazione continua del regime contro Israele e la sua esistenza non ha nulla a che fare con la questione palestinese, ma serve al regime per giustificare la sua oppressione. Donne emancipate, persone libere, sionisti ed ebrei sono i nemici del regime teocratico, a partire da un discorso fondamentalista che divide il mondo tra fedeli e infedeli.

“Non è vero che gli iraniani odiano gli ebrei e gli israeliani, spiega Mona Jafarian tra gli applausi, ma è invece il regime, da quando andò al potere Khomeini, che obbliga con la sua propaganda a credere che gli ebrei siano il nemico dell’Islam e che soltanto la distruzione di Israele possa fare la felicità del nostro popolo. Quando ci libereremo un giorno da questo odio politico che provoca tante guerre, anche le donne iraniane saranno libere. Certamente quando il regime cadrà sarà più facile la pace in Medio Oriente”.

E poi nel corso della cerimonia a Marsiglia è stata raccontata la storia Ginette Guy, che nei dossier della Gestapo era stata definita “come la più resistente di tutte”. Lo ha fatto sua figlia scrittrice Nichole Bacharan, che ha dedicato a lei il suo ultimo libro. “Mia madre allora aveva venti anni, era gioiosa e allegra. Ha salvato tante vite per un motivo molto semplice: era innamorata della vita. Si è poi salvata per miracolo e non mi ha mai voluto raccontare delle violenze che ha subito in Germania perché voleva che avessi una vita felice. Ho scritto un libro su di lei per gratitudine, ma anche per mostrare ai giovani che c’è tanto bisogno di donne coraggiose come lei di fronte ai tempi difficili che viviamo oggi. Il bene lo si compie con gioia. Questo è il segreto”.

Ascolta il racconto di RJM - Radio Juive de Marseille sulla cerimonia per i nuovi Giusti a Marsiglia
 

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

18 aprile 2024

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